Massimo Roj. Io un’archistar? Sono un sarto dell’architettura


A tu per tu con il fondatore di Progetto CMR, AD di un Gruppo (che oltre alla holding Progetto Cmr International comprende otto società) al primo posto nella classifica delle maggiori 200 società di architettura

intervista di Federica Fiorellini


L’ho incrociato per la prima volta a Venezia, nel 2016, come relatore a un “Parquet Day”. L’ho ritrovato questa estate a Barcellona, all’ultimo congresso FEP (la Federazione Europea dei produttori di Parquet), sempre in veste di oratore. In entrambe le occasioni sono rimasta colpita dalle sue doti di affabulatore, dal modo non convenzionale di raccontare il suo personale approccio al mondo del progetto (dove la musica rock ha un’importanza non marginale, così come ce l’hanno l’arte e la montagna). Così ho colto al volo il suo invito a visitare il quartier generale milanese di Progetto CMR (che, per inciso, è uno spazio davvero affascinante: tre piani fuori terra e uno interrato, che oltre agli uffici ospitano sale riunioni, un’academy, una library, pezzi di design, un giardino…) e di farmi raccontare la sua storia.
Lui, Massimo Roj, milanese doc e sciatore prestato all’architettura, come ama definirsi, dopo una laurea in Architettura al Politecnico di Milano e numerose esperienze all’estero, è colui che Progetto CMR l’ha fondata e, seguendo il motto che “piccolo è bello, ma solo se cresci”, l’ha fatta crescere fino a trasformarla in una società di progettazione integrata con sedi in Vietnam, Indonesia, Cina, Hong Kong e una serie di società controllate, una realtà che dal 2011 è l’unica società italiana nella classifica “World’s Top 100 architectural firms BD World Architecture”.
Ecco com’è andata la nostra chiacchierata.

L’headquarter di Progetto CMR, in via Russoli 6 a Milano (photocredit: Andrea Martiradonna).

Ci racconta com’è iniziato tutto?
Era il 1993, lavoravo da otto anni in una società inglese esperta in office space planning ed ero fortemente motivato a diventare socio. Il general manager italiano dell’azienda non solo me lo negò, ma approfittò di una crisi economica importante per lasciarmi a casa (nel 2008 il suddetto general manager ha iniziato a lavorare per Progetto CMR, nda).
Il 20 luglio di quello stesso anno è nata mia figlia, il 3 settembre, mentre andavo a Rimini per raggiungere la mia famiglia, sono stato coinvolto in un importante incidente a catena in autostrada dove ho distrutto la macchina. Il 4 settembre era il mio compleanno: non avevo lavoro, non avevo più la macchina, avevo una figlia piccola… Mi sono detto che dovevo fare qualcosa.

E cos’ha fatto?
Ho chiamato due amici architetti (Antonella Mantica, che conoscevo dai tempi del liceo, e Corrado Caruso) e abbiamo dato vita a Progetto CMR. Così, dal nulla. La mia esperienza era legata al mondo dell’office space planning, ma non ho voluto contattare i clienti con cui lavoravo in Inghilterra, così ho preso le Pagine Gialle e ho iniziato a scrivere. Scrivevo 10, 15 lettere al giorno, dalla A a salire, a tutte le aziende che trovavo.
Al mattino scrivevo, al pomeriggio telefonavo alle aziende a cui avevo scritto: raccontavo che ero un architetto e che volevo capire come si muoveva il mondo del lavoro, così ho iniziato a capire, ad assorbire problematiche e necessità. Lettera dopo lettera, telefonata dopo telefonata, mi sono fatto una mia idea.
Fino a che, dopo sei mesi di lettere e telefonate, sono arrivato alla lettera “J” di JP Morgan. Sono andato a fare una presentazione in cui, grazie all’esperienza acquisita in sei mesi di “interviste conoscitive”, sono riuscito a risolvere una serie di problematiche e a realizzare un desiderio della committenza relativo all’organizzazione degli spazi di lavoro. Questo è stato il mio primo lavoro.

Piccolo è bello, ma solo se cresci

Decisamente un inizio promettente… E dopo JP Morgan?
Il secondo lavoro me l’ha commissionato Schering-Plough, una compagnia farmaceutica americana. È stata in questa occasione che ho ritrovato Marco Ferrario, un altro ex compagno di classe (era il direttore lavori dell’impresa a cui era stato affidato il progetto); con Marco abbiamo fatto tutto il percorso formativo insieme, dalle scuole medie fino all’Università, quando lui si è iscritto a ingegneria e io ad architettura.
Era il 1994 e gli lanciai la sfida di portare l’ingegneria all’interno di uno studio di architettura: il mio sogno era quello della progettazione integrata. Il mio socio di CMR non era d’accordo, così decisi di realizzare un’altra società: una era Progetto CMR snc, con tre architetti, e l’altra Progetto CMR srl, con due ingegneri e un architetto.

Da allora un po’ di acqua sotto i ponti ne è passata…
Il primo passo è stato mettere insieme le due società, poi sono diventato azionista di maggioranza, quindi Progetto CMR è diventata una società di progettazione integrata, fino ad arrivare alla situazione odierna in cui, se consideriamo il consolidato di tutte le società, siamo il primo gruppo italiano di architettura in Italia, per fatturato, con 42 milioni di euro circa.
Negli anni la crescita è stata graduale ed è stata sostenuta, soprattutto negli ultimi anni, da acquisizioni esterne o creazione di nuove società, specializzate verticalmente in settori diversi.

Dagli uffici al building, com’è avvenuto il passaggio?
Il nostro focus è sempre stato quello della progettazione degli uffici, nel 2000 però, quando siamo “sbarcati” in Cina, abbiamo ampliato un po’ la prospettiva: abbiamo iniziato a lavorare a scala urbana… Tornando in Italia, nel 2007, abbiamo fatto tesoro dell’esperienza acquisita in Oriente e sono arrivate prima le Torri Garibaldi e poi tutto il resto del mondo building.
Insomma, a piccoli passi, ma siamo sempre cresciuti, perché piccolo è bello, ma solo se cresci. Questo è il mio parere.

Ogni architettura ha il suo posto…

Gli interni del Bivacco Camardella, una micro-architettura di montagna dedicata a un giovane alpinista e maestro di sci, travolto da una slavina sul Monte Bianco (photocredit: André Barailler).

Il suo approccio al mondo del progetto?
Il mio approccio è “inside out”, dall’interno verso l’esterno: credo che ogni progetto debba partire dalle esigenze delle persone che occuperanno gli spazi, per poi inserirsi in un contesto storico, culturale, geografico. Sostengo da sempre che ogni architettura ha il suo posto e ogni posto ha la sua architettura (mio nonno me lo ripeteva sempre, per gli oggetti): non si può progettare lo stesso edificio per luoghi differenti del mondo (come spesso avviene, sull’onda della globalizzazione o della visione autoreferenziale di alcuni professionisti).
I miei insegnanti, Franca Helg e Luigi Giffone, mi hanno sempre detto che bisogna progettare per il cliente. I nostri progetti sono tutti diversi perché diversi sono i clienti per cui progettiamo, diverse le aree geografiche in cui lavoriamo.
Ricordo uno degli ultimi incontri con Zaha Hadid, durante una conferenza internazionale. Io raccontavo di questa mia visione, con il cliente al centro, lei ci ha mostrato 54 progetti praticamente con la stessa immagine: “Questi sono i miei progetti, io disegno per me”.
Non so dire chi dei due abbia ragione, sono due visioni diverse. C’è chi si rivolge ad Armani per un vestito perché ama la sua impronta, il suo stile. Io sono il sarto che cucio un vestito su misura.

Il suo rapporto con Milano?
Milano è la mia città: ci sono nato, cresciuto, ci ho studiato. È la città che amo e che in qualche modo vorrei cercare di migliorare, contribuendo alla sua crescita e a un suo sviluppo più sostenibile, da un punto di vista ambientale, ma soprattutto sociale.
Un esempio concreto? Abbiamo fatto un lavoro di ricerca durato tre anni, ora protocollato al Comune di Milano, Regione Lombardia e Aler, improntato sul recupero di aree di edilizia popolare volto al miglioramento delle condizioni di vita: abbiamo identificato sette aree di edilizia popolare e poi ne abbiamo approfondita una, il quartiere San Siro, e abbiamo ipotizzato un intervento di demolizione graduale e ricostruzione degli edifici, integrando sin dall’inizio le diverse classi sociali e le diverse categorie (residenza, commercio, istruzione, sanità, cultura).
L’obiettivo è decuplicare l’area verde esistente, come sta avvenendo in molti Paesi europei.
Io mi auguro che il nostro progetto parta e venga preso come esempio non solo a Milano, ma in tutte le città con le stesse caratteristiche, con un’edilizia popolare fortemente degradata. Abbia già parlato con Torino, Genova e Roma. Il progetto è già arrivato su un tavolo interministeriale… Sarà l’età, ma l’idea di fare qualcosa per migliorare le vite degli altri mi fa stare bene.

Un lavoro a cui è particolarmente legato?
Ogni lavoro è come un figlio, alla fine ti affezioni… Comunque, tralasciando lo stadio di Milano – lo avrei fatto gratis, per la mia città, per la scuola, per la squadra (l’Inter, nda) – forse il progetto che considero più emblematico di Progetto CMR sono le Torri Garibaldi, il primo grande lavoro fatto in casa nostra dopo l’esperienza asiatica del 2000, nonché le prime green tower costruite in Italia… Devo dire che hanno cambiato molto la nostra visibilità.
Si tratta di due edifici molto particolari, le cui facciate sono ricoperte con 3200 cellule ciascuna, orientate in quattro modi diversi sui due assi, in modo da riflettere la luce in modi diversi, come due pietre preziose.

La sfaccettatura dell’involucro la troviamo in altri progetti…
Un altro esempio è quello degli edifici “d’oro” The Sign, il complesso per uffici firmato Progetto CMR per Covivio, fatto con una pelle cangiante che riflette la luce e fa sì che la facciata cambi colore a seconda di come la luce lo colpisce.
Io penso che gli edifici siano come degli esseri viventi: quando sono abitati il fluido vitale viene fornito dalle persone, quando si svuotano perdono la loro vitalità… Io attribuisco loro nuova vitalità attraverso la facciata.

“Il legno? Uno dei materiali più nobili”

Il nuovo Mottolino Headquarter a Livigno , con una scuola di sci, negozi, noleggio di sci e di mountain bike, ma anche una sala giochi, spazi per lo smart working e un ristorante.

Non posso non chiederle del suo rapporto con il legno?
Come architetto sono ovviamente affascinato da alcuni elementi, soprattutto gli elementi naturali, il legno e la pietra sopra tutti, che sono poi i primi materiali usati dall’uomo. Trovo che abbiano il potere di “scaldare” ogni ambiente.
Ritengo che il legno sia uno dei materiali più nobili, in casa mia l’ho messo dappertutto, credo che poter camminare a piedi nudi in casa (che sia in montagna, al mare o in città) sia una delle sensazioni più gradevoli e portatrici di benessere. E poi il legno vive insieme a noi, invecchia con noi, è partecipe della nostra esistenza.

La casa del futuro come se la immagina?
Me la immagino sempre più a immagine e somiglianza di chi la occupa.
Poi sarà flessibile (per accogliere i cambiamenti), luminosa (perché abbiamo bisogno di luce per vivere) e dotata di spazi esterni (siano essi logge, balconi o giardini). Sarà meno energivora, utilizzerà quello che la natura ci mette a disposizione (penso alla massa termica e alla ventilazione naturale).
E poi sarà fatta con materiali naturali: legno, pietra e mattoni.
Naturalmente sarà anche sempre più connessa e smart, ma questo è facile intuirlo.

L’architettura è sostenibile per definizione

La sua idea di architettura sostenibile?
L’architettura, per sua stessa definizione, è sostenibile, perché è fatta per gli altri, per permettere alle persone di vivere meglio. Certo, quello sociale non è che un aspetto della sostenibilità, non bisogna tralasciare quello ambientale, quello tecnico, quello economico, ma di solito la buona architettura tiene conto di tutto ciò.
Tutto è architettura, anche se non ce ne rendiamo conto. Pensiamo al Colosseo, è un oggetto di una sostenibilità pazzesca, perché è stato capace di durare nel tempo (non a caso in francese sostenibilità è durabilité).

Per chiudere… Si sente un’archistar?
No, sono e rimango uno sciatore. E poi un amante della musica rock. Al liceo mi chiamavano Tommy, perché ero il sosia di Roger Daltrey (voce solista e fondatore degli Who, nda), il rock ce l’ho nel cuore. L’architettura, esattamente come la musica, può e deve essere più di pura e semplice emozione: deve diventare portatrice ed espressione di un messaggio di condivisione, partecipazione, di sostenibilità.