Stefano Berti: “La mia lunga storia d’amore con il legno”


Una vera istituzione nel mondo del parquet: un ricercatore, un divulgatore, un uomo garbato e ironico, con una grande passione: gli alberi e le foreste. Lo staresti ad ascoltare per ore, perché è una persona che ama “chiacchierare” Stefano Berti, nel senso migliore del termine: è un uomo disponibile a mettersi in comunicazione, a raccontarsi, a parlare di tutto quello che sa, senza gelosia né superbia, ma con garbo e modestia, conditi con qualche battuta sagace da buon toscano. Un’istituzione nel settore del legno, cui ha dedicato l’intera carriera, apportando un contributo importante al comparto del parquet: dalla gestione sostenibile delle foreste alle applicazioni più innovative dei prodotti in legno.

Ecco quello che mi ha raccontato.

Federica Fiorellini

Con il legno è stato amore a prima vista?

Le mie origini non sono tanto legate al legno, quanto alla foresta, il mio primo amore: ho vissuto la mia infanzia nel Chianti, un’area famosa certamente per il vino, ma con magnifiche foreste (segnalo a chi non la conoscesse la meravigliosa cipresseta naturale di Sant’Agnese, tra le colline del Chianti, che si rinnova spontaneamente, senza interventi di rimboschimenti). Dopo le superiori, iscrivermi alla facoltà che un tempo si chiamava “Scienze Agrarie e Forestali” di Firenze (ora si chiama Scuola di Agraria – Corso di studio “Scienze Forestali e Ambientali”) mi è sembrato naturale. 

Al terzo anno c’era una materia fondamentale, “Tecnologia del legno”: è frequentando quelle lezioni che è arrivato il colpo di fulmine, legato prima che alla materia all’insegnante, il professor Guglielmo Giordano, l’uomo che nel 1954 aveva fondato a Firenze l’Istituto Nazionale del Legno, all’interno del CNR e che, in quegli anni, stava contribuendo alla nascita dell’Istituto di Assestamento e Tecnologia forestale all’interno della facoltà di Scienze Agrarie e Forestali.

Iniziando a frequentare l’Istituto conobbi un’altra persona per me molto importante, il professor Raffaello Nardi Berti, che mi assegnò un compito importante: rompere il legno, analizzarlo, studiarlo… (non ha mai smesso, nda) Mi appassionai tanto a questa occupazione, che mi sono preso una pausa di tre anni per dedicarmi solo al laboratorio.

Alla fine ce l’hai fatta a laurearti?

Ho dato dieci esami in un anno, anche perché avevo un obiettivo importante: il professor Nardi Berti mi disse che, una volta laureato, avrei avuto la possibilità di partire insieme a lui per l’Africa, dove stavano cercando consulenti Junior. Lo stesso anno ho discusso anche la tesi. La mia storia con il parquet inizia proprio qui: la mia tesi, infatti, verteva sullo studio di un legname per pavimenti di legno venuto dal Brasile, il Sucupira (oggi molto conosciuto, a differenza di allora). Il lavoro era stato commissionato da un’azienda italiana che si era rivolta all’Università di Firenze per capire se questo legno fosse utilizzabile o meno per i pavimenti. In poche parole verificammo che la Sucupira aveva delle caratteristiche notevoli dal punto di vista tecnologico e il legno fu messo in commercio.

Quindi Africa?

Sì, appena laureato sono partito per l’Africa, dove sono rimasto due anni, anche se non continuativi, con il compito di capire cosa si poteva fare con alcune specie legnose che crescevano in abbondanza, ma non venivano utilizzate, perché non conosciute. Ho trovato tantissimi legni interessanti in realtà, ma gli sbocchi sono stati pochi: con rammarico devo dire che da allora poco è cambiato, quando si parla di legno, l’aspetto estetico molto spesso prevale su quello prestazionale, di conseguenza si è portati a cercare e utilizzare sempre gli stessi materiali.

…E poi sei tornato a rompere il legno

Rientrato in Italia, tornai all’Istituto l’Istituto di Assestamento e Tecnologia forestale dell’Università a ricominciai a fare ciò che mi piaceva più fare: rompere il legno per conoscerlo, aiutando, all’occorrenza, gli studenti che stavano preparando le tesi. Ho rinunciato alla carriera universitaria, che mi andava un po’ stretta, per dedicarmi all’Istituto, consapevole di tutto quello che si poteva, e si doveva, fare. Ho sempre amato la libertà di scelta.

Contemporaneamente insegnavo alle scuole professionali di Firenze dedicate agli antichi mestieri artigianali (ebanisti, intagliatori). Ero docente, ma in realtà ero quello che imparava più di tutti, compresi tantissimi trucchi del mestiere. Ho insegnato anche all’Università, in Sicilia, ma questa è un’altra storia…

Tra un corso e l’altro, scoprii che all’Istituto del Legno del CNR (quello fondato da Giordano) che nel frattempo aveva cambiato nome in “Istituto per la Ricerca su Legno”, avevano indetto un concorso per ricercatori: partecipai e lo vinsi. Del resto era il mio pane: era richiesta la conoscenza dei materiali, saperli rompere, saperne riconoscere le infinite varietà e capirne le caratteristiche e le potenzialità… Non avevo fatto altro per anni. 

La mia cartiera di ricercatore è iniziata qui. Da ricercatore sono diventato direttore dell’Istituto fino al 2002, anno in cui il centro è confluito all’interno di IVALSA (Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree), nato come Istituto di filiera, che nel 2019 si è “trasformato” nuovamente, ingrandendosi, in Istituto per la Bioeconomia… Ma a quel punto io sono andato in pensione.

Se dovessi fare un bilancio della tua esperienza alla direzione dell’Istituto per la Ricerca sul Legno?

Diciamo che ho cercato di avere un approccio universale e questo ha pagato: ho riunito attorno a me un gruppo di lavoro eterogeneo, con esperienze, competenze e professionalità diverse, con l’obiettivo ultimo di conoscere davvero, a tutto tondo, il materiale legno. Questo insegnamento mi arrivava da Giordano, che aveva capito benissimo che fare ricerca significa lavorare in gruppo.

La mia grande soddisfazione è stata quella di aver creato e diretto un gruppo di lavoro che è stato in grado di proseguire la strada indicata da Giordano e il suo staff. Credo di essere stato propositivo e, di fatto, di aver contribuito a far nascere IVALSA, portando tutte le competenze di cui sopra in un contesto “allargato”, di filiera.

Che consiglio daresti alle giovani generazioni di ricercatori?

Premetto che sono convinto che il mestiere di ricercatore sia il più bello del mondo. Ciò che ci muove è il provare a dare risposte: è un mestiere fatto di curiosità il nostro, di intuizioni, di passione per lo studio

L’unico consiglio che mi sento di dare è: siate curiosi, continuate a farvi domande e a cercare di darvi delle risposte e in questo siate liberi, indipendenti più che potete. E poi non spaventatevi: studiando, ricercando, approfondendo, vi si apriranno a mano a mano moltissime porte, il rischio è quello di perdersi e di perdere di vista l’obiettivo. Il mio consiglio è quello di richiudere qualche porticina, di fermarsi (e magari passare a un collega i dati ottenuti per far ripartire lui da quella porta chiusa).

Tornando ai pavimenti di legno: cosa ti ha portato alla collaborazione con il mondo produttivo e associativo?

Uno degli aspetti che ho sempre ritenuto fondamentale nel mio lavoro è stato quello di ridurre le distanze tra il mondo della ricerca e la società civile, per questo mi sono sforzato di diffondere a più ampio raggio possibile i risultati dei miei studi o comunque lo stato dell’arte della ricerca sul legno nel nostro Paese, per aumentare la conoscenza e la coscienza del settore. Lo sentivo e lo sento come un dovere morale: chi lavora per un ente pubblico ed è pagato dai cittadini ha l’obbligo di mettere a disposizione di tutti, nel modo più chiaro e trasparente possibile i suoi studi. Bisogna smettere di raccontarsi le cose tra pari.

Di qui la collaborazione con Federlegno, con AIPPL, con le aziende del settore, non ti sei più fermato…

Certo, lo spirito è quello che spiegavo sopra: la divulgazione. A un certo punto questo si è tradotto in pratica in un doppio lavoro, ma, lo ripeto, in coscienza, non mi era possibile fare diversamente.

La fortuna è stata quella di aver incontrato delle persone che da un lato hanno colto la mia disponibilità, dall’altro hanno capito la necessità di ampliare le conoscenze del comparto. Così sono nati i primi corsi insieme a Gabriele Marrazzini, che all’epoca stava dando vita ad AIPPL, Associazione Posatori Pavimenti in Legno, per ampliare il sapere dei parchettisti, per farli crescere. Mi sono prestato volentieri perché lo ritenevo un mio compito. 

Quasi in contemporanea è nato il legame con Mapei: il dottor Squinzi mi chiamò per chiedermi la disponibilità a fare qualche “chiacchierata” con i suoi tecnici del settore parquet, che stavano mettendo a punto delle nuove colle per il legno.

Lo stesso è successo con FederlegnoArredo, in particolare con Edilegno: all’inizio degli anni ’90 stavano nascendo in Europa le normative sul legno in seno al famoso comitato CEN/TC 175 “Legno tondo e segati” e la Federazione mi chiese di seguire i vari gruppi di lavoro del CEN per supportare le industrie italiane. Stavano nascendo le norme europee sui pavimenti di legno e l’attenzione della Federazione era molto alta, perché noi in Italia, unici in Europa, al tempo avevamo norme tecniche molto migliori (e meno permissive) di quelle che poi sono state approvate e sono attualmente in vigore

Mi sembra che la tua opera di “divulgazione” non si sia mai fermata…

Ormai sono distaccato dal mondo della ricerca, che non si ferma e va avanti naturalmente… Quello che faccio ora, quando posso, è divulgare le peculiarità del legno, la sua sostenibilità (al di là degli slogan preconfezionati sulla necessità di piantare alberi in ogni dove, deprimenti oltre che pericolosi) e i suoi svariati campi di utilizzo in edilizia, al posto dei materiali cosiddetti energivori.

Amo raccontare la meravigliosa macchina che cattura anidride carbonica e produce ossigeno che sono gli alberi. Anche se sono sempre più allarmato. Il mio pensiero va alle generazioni future, il vero problema è che, al di là di aver preso coscienza che i cambiamenti climatici sono causati da noi stessi, stiamo facendo ben poco. Proseguendo a questi ritmi siamo destinati all’estinzione.

Anche in questo senso so che ti stai dando da fare…

Ancor prima di andare in pensione, dieci anni fa, ho iniziato a dedicarmi all’Associazione Foresta Modello delle Montagne Fiorentine, che attualmente presiedo: un interessante e nuovo strumento di governance del territorio che si ispira a un modello ideato in Canada negli anni ’90 e che coinvolge numerosi soggetti pubblici e privati. Ho sposato l’idea che per poter offrire un futuro alle persone c’è bisogno di imparare a vivere insieme (agricoltori, forestali, piccoli produttori e. chi più ne ha ne metta), eliminando le diatribe che esistono normalmente quando si abita lo stesso territorio. Ho capito che se si attraggono persone e si fanno restare quelle che già abitano il territorio (rendendolo appetibile anche in termini economici) è possibile, insieme, gestire in modo sostenibile le foreste e i paesaggi forestali, una risorsa preziosa. Le iniziative che portiamo avanti in questo sono tantissime.

Ti seguiremo senz’altro… Prima di salutarti, c’è qualcosa che ti manca del tuo lavoro?

Non ci crederai, ma è il rapporto con i posatori: le chiacchere al telefono o duranti i convegni, i consigli, i ragionamenti sul comportamento di questo o quell’altro legno mi hanno arricchito molto.