Bagheria Roma solo andata


È un lavoro faticoso quello del posatore. Lo è ancor di più se non lo scegli oppure se sei costretto a seguire consuetudini e rituali che non ti appartengono. Ma quando riesci a impostarlo come vuoi, può renderti l’uomo più felice del mondo”. Questa è la storia di Pietro Corrao, una storia d’amore, di umiltà e di volontà, che vale la pena di leggere.

Questa storia inizia a Bagheria, Palermo. Siamo nella Sicilia degli anni Ottanta. Pietro è un ragazzino intraprendente, ha appena finito la scuola media, ma ad andare al mare con gli amici non ci pensa proprio, ha voglia di indipendenza, di darsi da fare… E così convince un falegname a prenderlo a lavorare come garzone.
Da quel falegname ci rimane un anno, il tempo di impratichirsi con pialle e carta vetrata, fino al giorno in cui un amico gli fa sapere che il parchettista per cui lavora cerca un ragazzo da avviare alla professione. “Parquet? Ma che cos’è?”. Questa la sua prima reazione. “Non l’avevo mai visto e quindi non sapevo nemmeno immaginarlo”, mi racconta Pietro Corrao. Il coraggio però non gli manca (a quindici anni ti sembra di poter fare tutto) e poi il legno un po’ lo conosce, così segue il suo amico.

Com’è stato il primo impatto con il parquet?

È stato meraviglioso. Ero un ragazzino di quindici anni e avevo la possibilità di muovermi, conoscere persone diverse ogni settimana, ambienti nuovi, lavorazioni differenti. Mi divertivo davvero tanto. La cosa che mi piaceva di più era cimentarmi con le mille facce del pavimento di legno. Mentre in falegnameria prima di poter prendere in mano un attrezzo sono passati mesi, qui ho iniziato subito a tagliare, a fare i bordi. Mi sentivo in qualche modo artefice di quello che facevo, non un semplice gregario e questa cosa mi ha subito incantato“.

Hai imparato in fretta?

Direi di sì. Dopo due anni ho iniziato a levigare e a fare i primi lavori in autonomia. Il principale mi lasciava a lavorare da solo coi macchinari e io portavo i pavimenti in prima mano, quindi a fondo… Avevo 17 anni ed ero in grado di levigare e verniciare un pavimento. Mi sentivo grande. Del resto, se ti piace una cosa impari più velocemente, no?“.

E se ti lasciano un po’ di liberà, la passione aumenta…

Esattamente. Con le prime paghette che guadagnavo, andavo a comprarmi degli attrezzi. Il mio principale si stupiva ogni volta, perché in fondo lavoravo sotto padrone, l’impresa non era mia, eppure avevo sete di conoscere, di migliorarmi. Mi piaceva l’idea di avere lo scalpellino o la stecca oppure la chiave la 13 per smontare il dado della perimetrale. Non avrei smesso mai“.

Cosa ti ha fermato?

Il servizio militare. Mi è arrivata la famosa chiamata, destinazione Roma, e dopo il primo anno, obbligatorio, ne ho fatto un secondo. L’aria di libertà che respiravo a Roma era troppo forte: chi me lo faceva fare di tornare nella mia piccola, così mi sembrava, Bagheria? Così, con l’arrivo del congedo, ho deciso che dovevo fermarmi qui. Ce la dovevo fare in qualche modo. O provarci perlomeno. Ho trovato lavoro come parchettista subito, grazie a un annuncio su una rivista locale. Il primo colloquio è stato stranissimo: io parlavo, raccontavo quello che sapevo fare e il mio interlocutore mi guardava come fossi un marziano. ‘Sei troppo giovane per saper fare quello che mi racconti’, mi diceva“.

Si è ricreduto?

Sì, quando mi ha visto levigare. È una cosa strana, ma quando levigo sono tutt’uno con la macchina“.

L’importanza del sacrificio

Hai avuto dei buoni maestri?

Beh, i maestri di giù non è che ti chiedessero le cose per favore, le ‘martellate in testa’ si sprecavano, ma così apprendevi davvero il lavoro. La paura di sbagliare mi motivava, faceva sì che mi impegnassi, che fossi sempre attento a quello che facevo. Perché sapevo che dietro c’era il maestro con la tavoletta in mano (ride, nda). Sì, i miei maestri sono stati validi. Certo, quando sei ragazzo le correzioni un po’ ti infastidiscono, però quando vai avanti e cominci per la tua strada ti rendi conto che le cose andavano fatte proprio in quel modo“.

Quindi a Roma hai ricominciato da dove avevi smesso a Bagheria?

In un certo senso sì, anche se in verità ho lavorato per sei mesi e poi è cambiato qualcosa. Ho iniziato a non essere più entusiasta di questo lavoro. Tutto è diventato meno artigianale, la routine era sempre la stessa. Insomma, ho perso la passione, così mi sono trovato un lavoro come magazziniere in un supermercato. Però il parquet non l’ho dimenticato: mi brillavano gli occhi quando dovevo mettere a posto i detersivi per la pulizia del parquet e quando qualche signora si fermava lì al reparto io iniziavo a darle tutte le spiegazioni possibili su come prendersi cura al meglio del legno. Ormai mi conoscevano tutti e alla fine il titolare del supermercato mi ha chiesto di posargli un pavimento. Di lì a ricominciare tutto il passo è stato breve“.

Com’è andata?

Ho dovuto ricominciare da zero, non conoscevo fornitori di parquet, mi mancavano gli attrezzi e soprattutto non avevo una lira. Per farla breve, ho chiesto al principale 150 euro per comprare una troncatrice, che però costava 250 euro. Il venditore ha avuto fiducia in me, gli dissi che avrei iniziato a lavorare e poi l’avrei saldato, e me l’ha lasciata lo stesso. A volte, sai, incontri la persona giusta al momento giusto e questo ti cambia le cose. Io credo molto nella provvidenza, doveva andare così. Quando sono uscito dal negozio con quella troncatrice in mano era proprio come una Ferrari per me, mi sentivo un re e da quel momento ho passato i pomeriggi a preparare campioncini: li tagliavo, li incollavo, li levigavo a mano, li verniciavo e dietro scrivevo il mio numero di telefono. Poi ho iniziato a darli in giro nei negozi dove vedevo esposto del parquet. È arrivata la prima chiamata, poi un’altra, nel frattempo ho dato le dimissioni dal supermercato“.

E così sei tornato al primo amore, a ciò per cui eri predestinato?

Già. Nel 2012 ho comprato una levigatrice e una bordatrice usate da un posatore anziano che le vendeva a 1800 euro. Erano tutti i soldi che avevo da parte e non avevo la sicurezza che sarebbero entrati dei lavori, però ci ho creduto. E ho investito, grazie anche a mia moglie che mi ha sempre sostenuto… nel frattempo mi sono sposato. Ed ero l’uomo più felice del mondo, perché il mio sogno cominciava veramente a prendere forma“.

Quando hai capito che avresti fatto questo per tutta la vita?

Nel 2012, quando ho aperto la partita IVA. Sono andato immediatamente da una signora che faceva fotocopie e le ho chiesto aiuto per farmi un logo, poi ho stampato i primi adesivi e le maglie con il mio nome e cognome. Ho sempre fatto tutto da solo. Ci sono state salite e discese, ma è giusto così, perché se andasse sempre tutto bene ci si potrebbe insuperbire, invece le difficoltà ti mantengono coi piedi per terra. Nel frattempo ho avuto una bimba, poi, nel 2014, sono divento papà per la seconda volta e nel 2016 per la terza“.

Che consiglio daresti a un ragazzo che comincia oggi questa professione?

Credi in te stesso. Ma questo lo dico anche agli adulti: non è retorica, bisogna metterci convinzione in quello che si fa e crederci per primi, altrimenti come possiamo pretendere che gli altri credano in noi? Abbi il coraggio di investire sulla tua attività. E poi comportati bene, abbi una sana morale, rispetta le regole, non farti incantare dalle scorciatoie. Se non si fatica i risultati non si ottengono“.

La cosa che ti piace di più di questo lavoro?

Entrare nelle case della gente, trovare persone pronte ad ascoltarti e a darti fiducia, vedere un appartamento che pian piano si trasforma grazie al tuo intervento“.

La tua esperienza professionale più importante?

Sicuramente il Workamp Parquet. È un progetto bellissimo: ogni anno, per una settimana circa, un gruppo di 20-30 posatori provenienti da circa 10 paesi diversi si riunisce per una settimana di lavoro su un parquet storico, particolare. È un lavoro di squadra, di condivisione, di apprendimento e divertimento. Sono stato il primo italiano a partecipare al Workamp, nel settembre 2019. È nato tutto per caso, li seguivo sui social, ma mi sembrava che non fosse alla mai portata e poi non conoscevo le lingue. Poi un giorno ho scritto agli organizzatori, ho mandato delle foto di miei lavori e un piccolo video di presentazione e loro hanno risposto che sarebbero stati felici di avermi tra loro. Inizialmente pensavo si fossero sbagliati… E invece no: mi è arrivata la convocazione, insieme al regolamento. È stata un’emozione incredibile, come quando si ritorna bambini. Sono partito per Varsavia ed è stata l’esperienza più bella della mia vita. Ho visto come lavorano i miei colleghi all’estero e tanti giovani ragazzi guardavano noi, per imparare. Non è una gara, le competizioni secondo me non portano mai alla crescita, il Workamp nasce per condividere. Poi sono stato riconvocato a gennaio 2020, ad Hannover, e poi a settembre, dove ho conosciuto Pietro Belloni, un altro italiano, con il quale sono rimasto molto amico“.

Il tuo sogno nel cassetto?

Devo fare una premessa. Credo nella formazione, assolutamente, che non deve passare dal sentito dire, ma dall’aggiornamento. L’esperienza è importantissima, ma avere una base teorica ti permette di superare molte difficoltà. Mi piace aggiornarmi su tutto: sulle norme, sul legno, sui cicli di verniciatura, sugli attrezzi che vengono immessi sul mercato. Ecco, un sogno nel cassetto è quello di poter fare formazione. Erogarla io personalmente. Mi piacerebbe, quando i tempi matureranno e avrò uno spazio adatto, poter ospitare ragazzi volenterosi, che abbiano una dedizione verso l’artigianato e poter tramandare il mio mestiere, la tecnica ma anche la manualità, che in Italia sta un po’ scomparendo. Per imparare il nostro mestiere bisogna far incallire le mani, sentire la puzza, provare la fatica e sacrificarsi. I ragazzi di oggi sono stati ingannati: è stato detto loro che si può ottenere tutto in breve tempo, ma non è così. Io credo nella porta stretta cristiana, che poi è la metafora di un percorso fatto con serietà e sacrificio. Il nostro lavoro è così, richiede sacrificio, ma può renderti l’uomo più felice sulla faccia della terra“.

di Federica Fiorellini