I titoli di studio, le certificazioni, i requisiti fiscali, il talento, la capacità di persuasione e comunicazione, l’aggiornamento, il “problem solving”. Ci vuole tutto questo e molto di più. Per distinguersi bisogna essere immersi nel proprio lavoro “a tuttotondo”.
Il momento storico che stiamo vivendo, per le sue caratteristiche, finirà sicuramente tra i libri di storia e rappresenterà una nuova fase evolutiva a livello socio-economico: con l’industrializzazione si è passati dalla fase rurale a quella industriale, è seguita la fine del fordismo, con cui è cambiato il modo di lavorare (non più produzione in serie, ma ottimizzazione dei tempi di lavoro) e verso la fine degli anni ’90 è tramontata l’illusione di un impiego stabile e a tempo pieno. Il processo produttivo è stato trattato in modo globale per ridurre al massimo la complessità di produzione, mirando alla sua flessibilità.
Nell’era del “Toyotismo” si puntava ad aumentare il valore percepito dal cliente finale e a ridurre sistematicamente gli sprechi: questo era possibile solo con il coinvolgimento di persone motivate al miglioramento continuo, per una migliore efficienza di tutta l’impresa.
Il nuovo ruolo del “lavoratore”: nasce il professionista
A questi ultimi aspetti, oggi, si presenta una nuova esigenza: avendo come obiettivo finale il miglioramento continuo e il desiderio di aggiungere valore alla società, i “lavoratori” devono sviluppare sempre più competenze e abilità, dimostrando di essere dei veri esperti del proprio settore. Questo paradigma, a mio avviso, è valido per tutte le categorie, dalle “tute blu” ai “colletti bianchi“, anzi, più si sale nella scala gerarchica professionale e maggiore deve essere il livello di professionalità. Ecco allora che, oggi, si sente parlare del “professionista“: si tratta non tanto di un ruolo, quanto di una “figura“, presente in ogni settore e di cui ogni categoria dovrebbe essere dotata.
Il professionista non conosce solo i tecnicismi del proprio settore, ma è quella figura che è immersa nel proprio lavoro “a tuttotondo“.
Quotidianamente ci si accorge che il titolo di studio non è più sufficiente a garantire conoscenze complete e il contesto lavorativo necessita di un aggiornamento continuo, anche al di fuori dal percorso universitario, per spaziare tra argomenti e materie di diverso tipo.
Chi possiede conoscenze in più?
Partendo da questo presupposto, dunque, non si fanno più distinzioni e nell’utilizzo della parola “professionista“, ci si può riferire sia a un collaboratore sia a un imprenditore: in ogni caso, si rimanda a qualcuno che possieda delle conoscenze ‘in più’ rispetto a un collega di pari livello. Non basta più saper svolgere il proprio lavoro a regola d’arte, ma bisogna anche sapersi relazionare con l’altro, saper comunicare, essere persuasivi, avere delle nozioni di vendita piuttosto che di marketing, conoscere la parte normativa del proprio settore, oltre alle esigenze e le problematiche del cliente finale, aver sviluppato una buona capacità di problem solving e un adeguato senso di adattamento per lavorare in gruppo, conoscere le esigenze della propria nicchia di mercato e avere delle competenze digitali. Queste sono solo alcune delle caratteristiche di cui deve essere dotato il professionista: certo è che più se ne sviluppano e più ci si afferma nel proprio settore e si trova un riscontro sul mercato.
E nel nostro settore?
Dal punto di vista lavorativo, attualmente, non esiste alcun tipo di verifica sulle effettive capacità del professionista: non ci sono albi né ordini riguardanti i vari settori, su quel limite sottile e ambiguo tra tecnica e arte, che caratterizza principalmente il lavoro artigiano e il cliente finale, ancora una volta, risulta essere l’unico grande valutatore.
Trovandoci a parlare in una rivista specifica di settore, credo che il professionista potrebbe ben identificarsi con il “Posatore 4.0“, ossia con colui che, pur essendo a conoscenza delle norme, sa trovare soluzioni non solo tecniche, ma anche relazionali, legate a una comunicazione interpersonale, che oggi diventa anche virtuale. Si tratta di abilità che si sviluppano con il tempo, accostando l’esperienza alla formazione, l’osservazione alla pratica, l’ascolto all’intervento mirato e tempestivo.
Nel nostro settore, purtroppo, i titoli di studio, le certificazioni, i requisiti fiscali e l’effettiva bravura di un parchettista non sono necessariamente collegati tra loro: seppur questo sia ritenuto un lavoro “alla portata di molti“, non è detto che tutti abbiano una reale motivazione o predisposizione a diventare professionisti.
Essere professionista, ossia svolgere la propria attività lavorativa con particolari abilità e competenze, è rappresentato da un percorso: parliamo certamente di una strada in salita, ma che può dare molte soddisfazioni se si coltivano delle inclinazioni e se si persevera nello studio e nelle esperienze professionali.
Per i pigri non c’è comunque da preoccuparsi: il legno è sempre a disposizione di tutti, l’importante è non voler a tutti i costi spacciarsi per professionisti!
di Michele Murgolo e Stiven Tamai
Posatore 4.0
Posatore 4.0 è un progetto nato durante il periodo di lockdown, con la voglia di condividere esperienze e con l’obiettivo di aiutare i parchettisti a pensare fuori dagli schemi, mettersi in gioco e diventare imprenditori di successo. L’idea è di Stiven Tamai e Michele Murgolo, due professionisti accomunati dall’esperienza associativa, che hanno aperto in breve tempo una pagina Instagram attraverso la quale – grazie a video, animazioni, brevi slide – spingono i colleghi a tirare fuori il meglio di sé: “Puntiamo a una formazione personale, non tecnica. Ci rivolgiamo ai colleghi parchettisti, ma in generale a chi ha voglia di vedere oltre, di mettersi in gioco, parlando da imprenditore a imprenditore, cosa che ci permette di essere incisivi e credibili, perché conosciamo molto bene il settore”.