A tu per tu con Paolo Tirelli: “C’è ancora tanto da imparare”


Il direttore Catas si racconta. Parla di tecnica, formazione, sostenibilità e di futuro. E lo fa schiettezza, lucidità e con quell’umiltà autentica che solo chi non ha smesso di “ricercare” possiede

Federica Fiorellini

Paolo Tirelli è un uomo gentile. Lo capisci subito, dal tono della voce, dalla disponibilità con cui si mette in gioco e dal sorriso che accompagna ogni risposta, anche le più difficili. È una gentilezza autentica, fatta di schiettezza, ascolto e rispetto. Ma è anche un uomo di sostanza, che non ama i giri di parole e che nella tecnica ha trovato la sua passione, da coltivare con rigore e curiosità.

Classe 1975, ingegnere meccanico, è entrato in Catas oltre vent’anni fa e dall’inizio di quest’anno ne è il direttore generale. Ma non ha nulla del manager autoreferenziale: nella chiacchierata che abbiamo fatto si è raccontato con spontaneità, con ironia anche e con l’umiltà (non così comune) di chi è consapevole del proprio ruolo, ma non ha perso la voglia di imparare. Anzi, ne ha fatto il suo metodo.

Nel suo modo di parlare traspare un senso profondo del lavoro, inteso come responsabilità condivisa, attenzione alle persone, desiderio di costruire qualcosa che resti nel tempo. E di farlo bene, con competenza e trasparenza.

Quello che vi propongo è il racconto di un percorso, ma anche una visione lucida e appassionata sul futuro del nostro settore. Ed è proprio questo che, più di ogni altra cosa, ho apprezzato di questa intervista: il fatto che dietro ogni parola ci fosse prima una persona, poi un ruolo.

Partiamo dall’inizio. Chi eri da ragazzo, cosa ti piaceva fare?
Sono nato in un paesino della provincia di Udine. Fino alle medie, devo dire, me la sono goduta: avevo un bel gruppo di amici, si giocava molto all’aperto. A scuola invece non brillavo, ero più interessato al calcio. Studiavo il minimo indispensabile, ma ero sereno.

Poi le cose sono cambiate?
Un po’ sì. Mio padre era fabbro, produceva serramenti in alluminio. D’estate andavo ad aiutarlo nel capannone. Mi piaceva lo spirito che si creava con gli operai, si rideva, si lavorava. Però capii presto che quello non era il mio mestiere. Mio padre lo capì prima di me e mi disse una frase che mi ha segnato: “Se devi alzarti tutte le mattine malcontento, non farlo”. Una frase semplice, ma piena di saggezza.

Da lì la scelta del percorso tecnico: optai per un istituto tecnico per perito meccanico. Non c’erano open day ai tempi, mi affidai a un libretto scolastico e quell’indirizzo mi attirava. È stata la scuola giusta: impegnativa, ma molto formativa. In terza eravamo quasi trenta, in quinta ci siamo diplomati in quindici. Gli ultimi due anni sono stati bellissimi: un bel gruppo, grandi professori, tanta pratica.

Poi l’università. Perché ingegneria meccanica?
All’inizio pensavo di insegnare, ma studiando ho capito che non era la mia strada. I primi mesi all’università sono stati durissimi, ho pensato molte volte di mollare. A febbraio gli esami andarono malissimo. Mio padre, che non è uno che parla molto, mi disse: “Tieni duro fino a fine anno, poi vediamo”. Aveva ragione, superato il primo ostacolo, le cose sono migliorate.

Cosa ti ha fatto scattare davvero la passione per i materiali?
Un esame di metallurgia. C’erano dei software che simulavano le strutture molecolari dei metalli, modificandole, ne cambiavano le prestazioni. Lì ho capito che volevo lavorare con i materiali, volevo capirli, migliorarli. È da lì che è partito tutto.

Ed è così che sei arrivato a Catas…
Ci sono arrivato grazie all’Università: un professore mi propose una tesi sulle plastiche usate nelle sedie da giardino. Stavo facendo il servizio civile allora, quindi mi dividevo tra Comune e Catas. Poco dopo mi proposero di restare. Ho iniziato nel reparto chimico, anche se non era il mio campo, ma ero curioso, avevo voglia di imparare. Da lì sono passato al reparto meccanico, dove ho trovato la mia dimensione. Dopo un po’ mi è stato chiesto di diventare responsabile del reparto, è stato un momento bellissimo: avevo raggiunto l’obiettivo di lavorare sui materiali, capirli a fondo. C’era un clima di collaborazione molto stimolante, ogni prova era una sfida, un’occasione per capire qualcosa in più.

Poi sei diventato vicedirettore e, oggi, direttore generale
Quando mi è stato proposto il ruolo, non ho avuto molto tempo per pensarci. Ho detto sì, ma all’inizio mi ha tolto il sonno. I primi tempi sono stati intensi, avevo l’ansia della responsabilità: sessanta persone, sessanta famiglie. Poi ho capito che bisogna costruire un metodo: delegare, fidarsi, ma restare presenti. Delegare non vuol dire mollare, vuol dire condividere.

Come hai impostato il tuo lavoro da direttore?
Mi sono dato due obiettivi: il primo è la crescita delle persone. Formazione, welfare, percorsi professionali. Il secondo è mantenere la qualità e anticipare le sfide. La parte più difficile è prevedere il futuro, trovare idee forti. Come ha fatto chi mi ha preceduto: l’ingegner Speranza, il dottor Giavon e il dottor Bulian, che hanno creduto convintamente in una loro idea di azienda. Io sto ancora cercando la mia.

Che ruolo ha oggi Catas per le aziende?
Siamo un laboratorio, sì. Ma la prova è solo un mezzo, serve a conoscere meglio il prodotto, a migliorarlo. È vero, c’è ancora chi ci vede solo come un costo, ma sempre più aziende iniziano a capire che il nostro è un servizio, un supporto tecnico. Non siamo partner commerciali, ma possiamo essere strumenti di conoscenza.

Ti capita spesso di affrontare prove non “standard”?
Direi che nel reparto meccanico, almeno il 50% delle prove non ha norme di riferimento. Dobbiamo costruire i metodi. È stimolante.
Ci sono stati anche episodi curiosi, ricordo, per esempio, la prova sulle bottiglie di prosecco a cui saltavano i tappi, abbiamo costruito un sistema per misurare la forza di estrazione, fatto test a caldo e a freddo… E poi, ovviamente, abbiamo dovuto smaltire le bottiglie (ride).

E il mondo delle norme?

Fondamentale, ma in Italia c’è ancora poca partecipazione ai tavoli di normazione; i tedeschi fanno sistema, arrivano compatti, noi no. Una mia ambizione è riuscire a far dialogare tra loro i mondi: adesivi, pannelli, mobili. Troppo spesso i gruppi di lavoro ragionano a compartimenti stagni.

Parliamo di sostenibilità, parola molto “alla moda”…
Un tema centrale, ma usato spesso a sproposito. Bisogna prima capirsi: di cosa stiamo parlando? Carbon footprint? Circolarità? Ciclo di vita? Sono concetti diversi. Come Catas stiamo cercando di aiutare le aziende a orientarsi, anche coinvolgendo le associazioni di categoria. Il primo passo è sempre formare e informare.

Cosa manca oggi, secondo te, al settore legno-arredo?
Manca cultura del legno. Non voglio generalizzare, ma vedo sempre più spesso una conoscenza superficiale del materiale, anche tra tecnici e periti. Il legno va conosciuto, rispettato, studiato. Non basta dire “è bello e naturale”. Va capito nel profondo, anche nei suoi limiti.
Per questo c’è bisogno di formazione, anche pratica, a tutti i livelli.
In ambito normativo, per esempio, stiamo lavorando a un’idea che potrebbe portare a un patentino degli operatori d’incollaggio, perché spesso i difetti si eliminano con maggiore attenzione e cura preventiva. Chi lavora in produzione ha bisogno di strumenti, competenze, consapevolezza.

Per chiudere, cosa vorresti lasciare a Catas?
Un’azienda solida, autonoma, coerente. Soprattutto vorrei che quando andrò in pensione, nessuno sentisse il bisogno di chiamarmi, vorrebbe dire che ho fatto bene il mio lavoro: che l’azienda cammina da sola, sa dove andare.

E nel frattempo?
Nel frattempo continuo a studiare. Continuo a cercare. Perché, come dico sempre, c’è ancora tanto da imparare. E questo è il bello.